La crisi, si sa' non risparmia nessuno, neanche l'alta moda. E' notizia di oggi che il Tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento della Burani Designer Holding, capogruppo che controlla la Burani Fashion Group, prestigiosa griffe, talatro quotata in Borsa. Gli avvocati della società, nel tentativo di allungare i tempi e trovare una soluzione, si erano opposti chiedendo il trasferimento della procedura da Milano a Reggio Emilia, dichiarandone l'incompetenza territoriale, sostenendo che la sede effettiva non è quella legale, ma Graviano, ove si prendono le decisioni riguardanti la gestione. Il Tribunale, però, non ha avallato la richiesta.
La questione si è aperta con il rifiuto della Banca d'Affari Leonardo di scendere a fianco alla società come advisor nel tentativo di ricapitalizzazione che avrebbe dovuto portare denaro fresco nelle casse sociali con alle spalle un vasto debito verso le banche creditrici. A garanzia dell'operazione, gli amministratori della Burani avevano offerto un serie di immobili, rifiutati dalla banca, perchè non ritenuti idonei, sia nel prezzo, sia nella natura, in quanto "illiquidi", difficili da piazzare in caso di vendita sul mercato. E, come ribadito dal p.m. Luigi Orsi, "senza soldi non ci sono soluzioni diverse dal fallimento". Il problema potrebbe avere un effetto domino sulle società del gruppo e apre la strada a una serie di possibili retroscena e sconvolgenti sviluppi (anche se per ora non ci sono effetti contestuali sulla società quotata in Borsa, Mariella Burani Fashion Group il cui titolo è peraltro sospeso dalle contrattazioni a tempo indeterminato sin dallo scorso agosto, ma che potrebbe essere travolta dal fallimento della controllante). E' noto che la società, in parallelo con l'apertura di un inchiesta di natura penale, già da tempo era nel mirino della Borsa e della Consob per una serie di strani movimenti sul mercato finanziario e nei conti dei bilanci che destano notevoli perplessità. Si ipotizza dunque il reato di aggiotaggio e non difficilmente si potrebbe arrivare a quello di bancarotta legato al fallimento. Per quanto riguarda il primo, l'andazzo di fare il "market mover" di sé stesso era una consuetudine. Secondo uno studio del Sole 24Ore nel 2005 i titoli mossi direttamente dai Burani sarebbero stati 4,97 milioni in acquisto e 4,4 milioni in vendita; nel 2006 gli acquisti diretti avevano interessato 6,8 milioni di azioni e le vendite 6,5 milioni con valori scambiati per 130 milioni di euro in acquisto e 122 in vendita. Ancora nel 2008 a crisi non ancora annunciata, gli scambi attuati dalla famiglia hanno riguardato altri 5-6 milioni di pezzi compravenduti. E dato che il numero di azioni di Mariella Burani erano mediamente sui 29 milioni (di cui più di 15 milioni in mano alla famiglia) i Burani muovevano un terzo del flottante. Insomma un continuo e imponente gioco di trading su sé stessi. Ma a cosa serviva questo frenetico movimento? Ovviamente a guadagnare per sé e per le persone cui i Burani offrivano i loro pezzi pregiati, probabilmente la "garanzia" di farli rientrare presto dell'investimento. Ma anche la copertura di qualche squilibrio sui conti della società già presenti. Tutto come se il mercato non ci fosse o fosse un giocattolo azionato da leve in loro mano. Secondo una ricostruzione de «Il Sole 24 Ore» nei bilanci consolidati dell'azienda, le prime difficoltà si evidenziano già nel 2005. In quell'anno c'è stata una forte rivalutazione degli asset immateriali. Marchi e avviamenti pagati per le acquisizioni. Beni intangibili che passano da 123 milioni a quasi 300 milioni. Un salto in avanti che pone qualche problema. Ovvio che una società di moda (come quella di pubblicità, ecc.) dovrebbe avere all'attivo notevoli beni immateriali, dato che ne costituiscono il Know-How. Tuttavia, se il patrimonio netto è minore del valore degli intangibili, qualche problema si pone. Un bene intangibile, difatti, ha valore finchè tale asset è strettamente legato alla società e tale società è in funzionamento. Il patrimonio netto è la differenza tra tutte le attività e le passività di una azienda. Se esso è minore degli intangibili, vuol dire che nel caso di vendita della società in funzionamento: il loro valore è sostenuto. Si pensi alla vendita di una prestigiosa società, esempio la Ferrari, paradossalmente all'attivo potrebbe ritrovarsi solo il valore del marchio. Dovendo, però, liquidare la società perchè decotta, emblematico nel caso del fallimento, è ovvio che quegli asset che hanno un valore perchè legati al funzionamento della società, se la società non produce più, valgono zero.
Ebbene nel 2005 quegli attivi immateriali erano più alti di ben 55 milioni. Non solo: dal 2005 in poi, grazie alle operazioni finanziarie, la società ha incamerato ben 310 milioni di proventi straordinari che hanno di fatto gonfiato il margine operativo lordo, quel parametro che dice quanto guadagni sull'attività industriale e che non comprende i risultati delle gestioni accessorie, gli ammortamenti e svalutazioni. Valori, questi ultimi, strettamente legati a processi di valutazione, che "potrebbero" essere utilizzati per ottenere politiche di bilancio mirate. E' noto che più il Mol è alto più la società vale in Borsa. Peccato che, stante lo studio, il Mol dal 2005 cominciava ad includere risultati che pur essendo legati alla gestione caratteristica, derivavano da operazioni di smobilizzo, dunque a rigore, straordinarie. L'indice, così riclassificato, si riduceva fino ad andare in rosso già nel 2007. Marchi rivalutati ed incassi una tantum, così contabilizzati, hanno permesso di non evidenziare, il vero stato di salute dell'azienda. Una situzione tutta da dimostrare sperando che non porti con sè gli strascichi che abbiamo già visto con Parmalat e Cirio.
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