Prudente. Uomo che crede al 10% di ciò che sente, ad un quarto di ciò che legge e alla metà di ciò che vede.




giovedì 18 febbraio 2010

Italia: per l'Europa più preoccupante della Grecia!


In un intervista rilasciata per BloombergTv, l'economista canadese Robert Mundell, esperto di economia internazionale, premio nobel nel 1999 per la sua analisi della politica fiscale e monetaria in presenza di diversi regimi di cambio e delle aree valutarie ottimali (nonchè preconizzatore della moneta unica e sostenitore dell'ingresso in Unione Europea dell'Inghilterra), ha lanciato un grido d'allarme molto preoccupante per l'Italia. In realtà, più che per il BelPaese, i suoi timori erano rivolti al sistema Europa, al caso che, essendo costretto ad intervenire in un possibile salvataggio, venga distrutto tutto quanto si è costruito a partire dal Trattato di Roma del 1957. L'Italia, si sa', ha un elevatissimo debito pubblico e il suo default, in assenza di ripresa, potrebbe essere dietro l'angolo. Si pensi a ciò che potrebbe verificarsi qualora la BCE, sempre attenta alla stabiltà dei prezzi, vedendo un lumicino di ripresa cominciasse la sua exit strategy, drenanando liquidità dal mercato cominciando progressivamente ad innalzare il tasso di sconto. L'Italia, ancora lontanissima dall'uscita dalla crisi sarebbe a sua volta costretta a dover riconoscere un rendimento più elevato sui Titoli di Stato, e ciò potrebbe portare a tre ordini di conseguenze: 1) il problema sollevato dal premio Nobel, cioè la possibilità che in assenza di ripresa, l'Italia sia costretta a pagare "interessi su interessi". Cosa che, con un debito stimato di 1.800 miliardi (di cui non conosco quanto in scadenza nel 2010) non è ipotesi poi tanto remota da sostenere; 2) aggiungerei che, anche qualora la prima situazione sia in sè sostenibile (il debito Italiano inizia a crescere dall'Unità), gli investitori e i risparmiatori italiani, che finora, vuoi per bassa cultura finananziaria, vuoi per scarsa fiducia nel mercato, vuoi per affezione, si sono sempre rivolti ai titoli di Stato, iniziassero a rivolgersi ad altri mercati o altri prodotti, perchè ritenuti più profittevoli o addirittura più sicuri. Questa sorta di franchigia di cui per anni ci si è cullati finirebbe, con la conseguenza che le aste dei titoli pubblici andrebbero deserte. Un esempio al solito vale più di mille parole. Il Bond dell'azienda privata Enel in collocamento presso le banche in questi giorni ha avuto dai risparmiatori una richiesta più che tripla rispetto alla sua offerta, segno che le famiglie italiane stanno iniziando a vedere con maggior interesse le obbligazioni emesse dalle aziende (dopo i vari crack Parmalat, Cirio, Alitalia, ecc,) anche perchè ormai i titoli di Stato rendono troppo poco; 3) il fatto che l'Italia potrebbe essere fatta oggetto di speculazione e in questo caso non possiamo far altro che sperare che le Mani Forti vedano sempre altri lidi più profittevoli dove giocare al ribasso e al rialzo e non prendano mai a bersaglio l'Italia, altrimenti non si riuscirebbe più davvero a gestire la situazione.
La Grecia è un problema locale. Potrebbe andare in default, ma questo non avrebbe alcuna conseguenza sul resto dell'Europa o comunque non tali da portarla con sè. L'Italia è diversa. L'Integrazione Italiana nel sistema Euro è fondamentale e fare per essa ciò che si sta facendo per la Grecia potrebbe essere inutile. La sua situazione potrebbe cioè essere non salvabile.
Non so chi vedremo nei prossimi giorni in televisione, siamo in periodo di propaganda elettorale e forse nessuno potrà andare a sostenere le "proprie" verità. In tempi normali ci sarebbe stato il solito bla bla bla dei vari ministri e deputati: chi afferma che i conti pubblici italiani sono sotto controllo, chi dice che questa è la riprova che l'Italia non sta facendo nulla per uscire dalla crisi, chi dice che questo è la riprova che l'Italia sta facendo meglio degli altri perchè sta tenendo il debito fermo. Per quanto mi riguarda non sono affatto sorpreso, ciò che ha affermato Mundell è l'estremizzazione di un caso emblematico che come iniziato nel 1861, continuerà ancora per molto tempo a contrassegnarci. Per questo, non posso far altro che richiamare quello che ho già ribadito in un precedente post su questo Bolg, cioè il fatto che, la crisi doveva essere occasione per eliminare quello che non và e uscirne con un Italia più equilibrata pronta ed agganciare la ripresa alle prime timide avvisaglie, eliminare la spesa improduttiva e avere il coraggio di far crescere la spesa, se necessario, per porre le basi della ripresa. Cosa che sicuramente non vedremo perchè "chi di dovere" sicuramante prenderà questo dato come l'ennesima conferma al fatto che bisogna tenere fermo il debito ovvero la riprova che non fare nulla vuol dire fare bene, non capendo che se non ci si rimette in moto, il debito pubblico sarà esso stesso causa ed effetto di altro debito pubblico. Sono questi i momenti in cui si dovrebbe vedere il ruolo della politica e la sua capacità di farsi "imprenditore" altrimenti non ha nessun senso che trattenga il 45% di quello che guadagnamo. Ahimè, all'ordine del giorno adesso ci sono le intercettazioni! Poveri noi.

sabato 13 febbraio 2010

Piccole figure professionali crescono! Professione conciliatore


Una figura professionale di cui sempre più frequentemente si sente parlare negli ultimi mesi e che molto probabilmene è destinata ad avere un grande sviluppo in Italia, dati i rilevanti tempi della giustizia ordinaria, l'alto contenzioso a cui deve far fronte e gli alti costi ad essa associati: è quella del conciliatore. I numeri parlano da soli. Già nel 2007 - secondo dati dell'università RomaTre - è stato registrato un aumento del 52% del ricorso alle conciliazioni, incremento proseguito anche nel corso del 2008 e del 2009. Inoltre, continua il rapporto, risulta che il 90% delle controversie esaminate fuori dai tribunali viene risolto con successo. E sono numerosi i master universitari in catalogo nei maggiori atenei e centinaia, se non migliaia, i corsi professionali, pubblici e privati, presso camere di commercio, enti di formazione, difensori civici, nonchè gli stage, che dovrebbero fornire le competenze relazionali e gli strumenti giuridici per la gestione delle diverse tipologie di conflitto. Allo stato dell'arte sembra potersi affermare che chi si formerà in modo più tempestivo, molto probabilmente sarà destinato a trovarsi di fronte ad una vera e propria professione. I possibili sbocchi anche per i giovani laureati sono vasti dato che la legge che istituisce questi organismi prevede tra i soggetti che possono accedere alla "professione" anche i laureati in materie giuridiche o economiche ovvero iscritti in albi professionali in materia giuridiche o economiche con anzianità inferiore ai 15 anni, che abbiano seguito con successo un corso specifico di formazione per conciliatori, che sia stato svolto in conformità a quanto prescritto dal Responsabile del registro. Il Registro degli organismi di conciliazione è previsto dagli articoli 38–40 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 ed è una banca dati tenuta presso il Ministero della Giustizia sotto la vigilanza del Direttore generale per gli affari civili o un suo delegato, nel quale sono individuati tutti gli organismi che, avendone fatto domanda siano stati iscritti nel registro.
Il pensiero, ad oggi, torna ai numerosi corsi sulla Gestione della Qualità, la Sicurezza, l'Ambiente, le norme Iso per intenderci, le HCCP, sulla sicurezza alimentare, che all'inizio vennero tacciati di autoreferenzialità, come avvenne per le agenzie di rating o le società di certificazione dei bilanci, mercato che ad oggi può dirsi saturo, ma che ha creato un vastissimo numero di figure professionali, e imprese che gestiscono il sistema, dall'implementazione fino all'accreditamento. Si pensi poi che la certificazione Iso, o l'Emas, è divenuto poi requisito necessario per la quasi totalità dei bandi pubblici. A tal riguardo, è bene sottolineare che, molte associazioni di categoria si stanno battendo per l’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di contratti assicurativi e responsabilità medica. Dunque, si può già pensare che non difficilmente il legislatore appoggerà questa possibilità, nell'ambito dell'ormai datato dibattito sulla riforma della giustizia.
Ma chi è il conciliatore? Una figura che opera all'interno degli "organismi di conciliazione", strumenti alternativi di definizione delle controversie. Lo scopo, quello di offrire, quando possibile, soluzioni più spedite, agevoli ed economiche alle liti e, d’altra parte, di ridurre il contenzioso giurisdizionale. In sostanza, la sua funzione è quella di condurre le parti ad un accordo, una definizione della lite prescindendo dall’azione giudiziaria (com'è noto connotata da una serie di requisiti imprescindibili: avvocati, tribunali, marche da bollo, anni di attesa, vari gradi di giudizio prima di giungere a conclusione definitiva).
Un mediatore, con il compito, oggi assegnato dalla legge a garanzia di imparzialità, trasparenza e professionalità, di guidare le parti nella negoziazione promovendo e favorendo il raggiungimento dell’accordo.
Egli, oltre a ricevere le eventuali proposte conciliative delle parti, può anche procedere a formularne una propria, che possa poi essere tratta come base del definitivo atto che chiude la lite. Il conciliatore non assume alcuna decisione né emette alcun provvedimento dotato di autonoma efficacia giuridica. Sono le parti che accordandosi pongono fine al conflitto.
Questo ad oggi, vedremo se il tempo mi darà ragione!

giovedì 11 febbraio 2010

Burani come Cirio e Parmalat?


La crisi, si sa' non risparmia nessuno, neanche l'alta moda. E' notizia di oggi che il Tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento della Burani Designer Holding, capogruppo che controlla la Burani Fashion Group, prestigiosa griffe, talatro quotata in Borsa. Gli avvocati della società, nel tentativo di allungare i tempi e trovare una soluzione, si erano opposti chiedendo il trasferimento della procedura da Milano a Reggio Emilia, dichiarandone l'incompetenza territoriale, sostenendo che la sede effettiva non è quella legale, ma Graviano, ove si prendono le decisioni riguardanti la gestione. Il Tribunale, però, non ha avallato la richiesta.
La questione si è aperta con il rifiuto della Banca d'Affari Leonardo di scendere a fianco alla società come advisor nel tentativo di ricapitalizzazione che avrebbe dovuto portare denaro fresco nelle casse sociali con alle spalle un vasto debito verso le banche creditrici. A garanzia dell'operazione, gli amministratori della Burani avevano offerto un serie di immobili, rifiutati dalla banca, perchè non ritenuti idonei, sia nel prezzo, sia nella natura, in quanto "illiquidi", difficili da piazzare in caso di vendita sul mercato. E, come ribadito dal p.m. Luigi Orsi, "senza soldi non ci sono soluzioni diverse dal fallimento". Il problema potrebbe avere un effetto domino sulle società del gruppo e apre la strada a una serie di possibili retroscena e sconvolgenti sviluppi (anche se per ora non ci sono effetti contestuali sulla società quotata in Borsa, Mariella Burani Fashion Group il cui titolo è peraltro sospeso dalle contrattazioni a tempo indeterminato sin dallo scorso agosto, ma che potrebbe essere travolta dal fallimento della controllante). E' noto che la società, in parallelo con l'apertura di un inchiesta di natura penale, già da tempo era nel mirino della Borsa e della Consob per una serie di strani movimenti sul mercato finanziario e nei conti dei bilanci che destano notevoli perplessità. Si ipotizza dunque il reato di aggiotaggio e non difficilmente si potrebbe arrivare a quello di bancarotta legato al fallimento. Per quanto riguarda il primo, l'andazzo di fare il "market mover" di sé stesso era una consuetudine. Secondo uno studio del Sole 24Ore nel 2005 i titoli mossi direttamente dai Burani sarebbero stati 4,97 milioni in acquisto e 4,4 milioni in vendita; nel 2006 gli acquisti diretti avevano interessato 6,8 milioni di azioni e le vendite 6,5 milioni con valori scambiati per 130 milioni di euro in acquisto e 122 in vendita. Ancora nel 2008 a crisi non ancora annunciata, gli scambi attuati dalla famiglia hanno riguardato altri 5-6 milioni di pezzi compravenduti. E dato che il numero di azioni di Mariella Burani erano mediamente sui 29 milioni (di cui più di 15 milioni in mano alla famiglia) i Burani muovevano un terzo del flottante. Insomma un continuo e imponente gioco di trading su sé stessi. Ma a cosa serviva questo frenetico movimento? Ovviamente a guadagnare per sé e per le persone cui i Burani offrivano i loro pezzi pregiati, probabilmente la "garanzia" di farli rientrare presto dell'investimento. Ma anche la copertura di qualche squilibrio sui conti della società già presenti. Tutto come se il mercato non ci fosse o fosse un giocattolo azionato da leve in loro mano. Secondo una ricostruzione de «Il Sole 24 Ore» nei bilanci consolidati dell'azienda, le prime difficoltà si evidenziano già nel 2005. In quell'anno c'è stata una forte rivalutazione degli asset immateriali. Marchi e avviamenti pagati per le acquisizioni. Beni intangibili che passano da 123 milioni a quasi 300 milioni. Un salto in avanti che pone qualche problema. Ovvio che una società di moda (come quella di pubblicità, ecc.) dovrebbe avere all'attivo notevoli beni immateriali, dato che ne costituiscono il Know-How. Tuttavia, se il patrimonio netto è minore del valore degli intangibili, qualche problema si pone. Un bene intangibile, difatti, ha valore finchè tale asset è strettamente legato alla società e tale società è in funzionamento. Il patrimonio netto è la differenza tra tutte le attività e le passività di una azienda. Se esso è minore degli intangibili, vuol dire che nel caso di vendita della società in funzionamento: il loro valore è sostenuto. Si pensi alla vendita di una prestigiosa società, esempio la Ferrari, paradossalmente all'attivo potrebbe ritrovarsi solo il valore del marchio. Dovendo, però, liquidare la società perchè decotta, emblematico nel caso del fallimento, è ovvio che quegli asset che hanno un valore perchè legati al funzionamento della società, se la società non produce più, valgono zero.
Ebbene nel 2005 quegli attivi immateriali erano più alti di ben 55 milioni. Non solo: dal 2005 in poi, grazie alle operazioni finanziarie, la società ha incamerato ben 310 milioni di proventi straordinari che hanno di fatto gonfiato il margine operativo lordo, quel parametro che dice quanto guadagni sull'attività industriale e che non comprende i risultati delle gestioni accessorie, gli ammortamenti e svalutazioni. Valori, questi ultimi, strettamente legati a processi di valutazione, che "potrebbero" essere utilizzati per ottenere politiche di bilancio mirate. E' noto che più il Mol è alto più la società vale in Borsa. Peccato che, stante lo studio, il Mol dal 2005 cominciava ad includere risultati che pur essendo legati alla gestione caratteristica, derivavano da operazioni di smobilizzo, dunque a rigore, straordinarie. L'indice, così riclassificato, si riduceva fino ad andare in rosso già nel 2007. Marchi rivalutati ed incassi una tantum, così contabilizzati, hanno permesso di non evidenziare, il vero stato di salute dell'azienda. Una situzione tutta da dimostrare sperando che non porti con sè gli strascichi che abbiamo già visto con Parmalat e Cirio.

lunedì 8 febbraio 2010

Errare humanum est, perseverare diabolicum! Atto Secondo


Una considerazione è ovvia. Il privato per investire ha bisogno di lucrare. Altrimenti non lo fa. Il problema è che l'acqua è un monopolio naturale. Se gestita da un ente pubblico l'obiettivo è quello di recuperare i costi che sostiene e non c'è profitto. Se la gestione viene affidata ad un privato, attraverso la posizione di monopolio tenderà ad estrarre dall'investimento il massimo lucro, ottenendo una rendita di posizione. Domanda: perchè se è possibile ottenere una rendita, bisogna regalarla al privato piuttosto che trattenerla presso l'ente pubblico e servirsene per la comunità? Questo è un mistero tutto italiano! Rispondendo avremmo a disposizione i milioni di euro che ogni anno si dividono gli azionisti e i dirigenti di Atlantia, per le autostrade, o quelli delle altre concessioni di cui è meglio tacere. E sicuramente non pagheremmo così tanto ogni volta che passiamo dal casello, prendiamo un traghetto, ecc.
Occorre, però non nascondersi, ed affrontare seriamente il problema. La nostra rete idrica non è così efficiente. E forse non lo è mai stata. In certe realtà esistono immensi problemi legati alla vetustà delle condutture, con le relative perdite e gli altissimi costi di manutenzione! Perchè non si cambiano? Ebbene: 1) se un piccolo comune si dovesse sobbarcare a sue spese il rifacimento delle vasche e delle tubazioni, gli scavi, ecc, pur non dichiarando bancarotta, quantomeno rischierebbe di far decadere la giunta; 2) se concorressi alla carica di sindaco, sapendo che per rendere efficiente la rete idrica, occorre spendere 15 milioni di euro, con le casse del comune a zero, dovrei chiederli ai cittadini e farli anticipare dalla cassa depositi e prestiti. A questo punto non so se i cittadini sarebbero ancora disposti a votarmi dato che ha deciso di indebitarli per almeno 35 anni. Forse non mi voterei neanch'io. Dunque si fa finta di nulla e si cerca di finire la legislatura senza rogne. Ovvio che, se non lo faccio io, pensate che lo faccia l'amministrazione successiva?
Allora interviene il Governo! Affidamento ai privati. E il problema, tricchete tracchete è risolto. Ma se non ha interesse il comune a risolvere le falle, pensate che lo faccia chi gestisce una concessione? A tempo poi? Se offrissi 100.000 € al comune per gestirgli la rete idrica, che motivo ho di sostituirla? Pagando, poi? Nessuno, a meno che non sia una grande azienda capace di indebitarsi e guardare a prospettive di lungo termine e dunque non abbia chiare e stabili le condizioni dell’affidamento. Ma per questo occorre un impegno concreto tra comune e azienda. Cosa che la legge però non prevede. Ma è normale ogni ente si premurerà di sviluppare.
Si ripropone una vecchia domanda: perchè affidarla e non gestire direttamente il bene pubblico? Se ci mettiamo un pò di malizia troviamo anche la convenienza di tutto questo circolo. Se a chiedere un aumento è il comune, magari qualcuno ci rimette la poltrona. Se a farlo è una società privata, la cosa è diversa. Nessuno si è mai sognato, infatti, di manifestare davanti al benzinaio per il costo della benzina troppo caro o all'Enel per la corrente elettrica. Così, ci si può vantare che le promesse elettorali, sono state mantenute. Le tasse, non sono state aumentate. La società non perde nulla. Fa i lavori necessari e in caso non ottiene le cifre preventivate, dopo averci guadagnato per un pò, rompe il contratto per inadempimento, e arrivederci. Tutto come prima. Qualche contenzioso con il Comune che ergendosi a paladino della giustizia chiede indietro i soldi versati dai cittadini per i rifacimenti, addossando le colpe alla società o, avendone la possibilità, alle amministrazioni precedenti. Poi tutto si calma. Film già visto. Ma, affidando al privato accade una cosa particolare. Il comune si riempe per un po' le casse con i soldi della concessione, che di questi tempi fanno sempre comodo. La società che vince l'appalto ci specula un bel pò di soldi distribuendo piccoli aumenti alla tariffe. Avrà bisogno di dipendenti, ergo, ci saranno assunzioni, che ovviamente effettuerà in loco con le dovute "selezioni" effettuate dalla classe politica locale.
Così, con un minimo costo, sopportato da noi, ci han guadagnato un pò tutti. Comunità, società di gestione, classe politica. Liberisti compresi.
Li Gioi Giovanni

Errare humanum est, perseverare diabolicum! Atto Primo


Seguivo ieri una trasmissione rai che parlava di privatizzazione dell'acqua. Dato che in Italia, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, ho approfittato della domenica per documentarmi. Conoscevo già l'esistenza di un D.L. del 2008 in materia, ma non pensavo che il passaggio a legge sarebbe passato tanto inosservato, visto lo scalpore che creò la sua approvazione (contrarietà della Lega Nord, forte opposizione dell'Italia dei Valori, migliaia di comitati in tanti Paesi che subito dopo si vennero a creare). Eppure davanti al voto di fiducia, la Lega ha dovuto arrendersi è questa è purtroppo la realtà. La legge di conversione del D.L. 135 del 2009, stabilisce che tutti i comuni e le province che gestiscono in proprio il servizio idrico, dovranno entro il 31 dicembre 2011 esternalizzarlo. La legge recepisce un direttiva europea recante "Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee" che, stante la lettera della stessa, servirebbe a "favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici ed al livello essenziale della prestazione". La questione, dal mio punto di vista, non è di tipo ideologico. Non riguarda il dibattito se l'acqua sia o meno un bene pubblico o una merce (da che mondo e mondo, l'acqua, pur bisogno primario, si paga, quindi chiamatela come volete, ma se ha un prezzo, o è una tassa, o una merce). Il fatto è che, se la gestione fosse effettuata in modo efficiente ed economico (non penso che qualcuno dubiti a riguardo), il problema non avrebbe nemmeno da porsi, dato che sarebbe ininfluente pagare ad un ente pubblico 100€, anziché pagarlo ad un privato per ottenere il medesimo servizio. I cultori del liberismo sfrenato avranno ovviamente da dissentire date le posizioni sull'efficienza delle regole dell'economia di mercato grazie alle quali stiamo pagando le conseguenze. Il vero problema è che in tre righe viene fuori un conflitto di interessi grande come una casa. Ogni singola parola fa a pugni con le altre. La domanda è: come può garantirsi l'universalità del servizio e l'accesso a tutti, se la gestione viene affidata a società private, per definizione ispirate a conseguire un profitto e di certo non a criteri solidaristici? ... segue
Li Gioi Giovanni

sabato 6 febbraio 2010

Guerra di cifre! Atto secondo


Ennesima presa in giro, ancora sui dati, ma questa volta "carta canta"! In una trasmissione rai, il video in fondo all'articolo parla da solo, il vicepresidente alla Camera dei Deputati, On. Maurizio Lupi, assale letteralmente il Prof. Tito Boeri che commentava la politica sociale del governo a suo dire insufficiente. L'onorevole faceva anche riferimento a dati del Fondo Monetario Internazionale (IMF) che secondo la sua "opinione" avrebbe premiato l'Italia come il Paese che ha meglio affrontato la crisi a livello internazionale. Si sa che in Italia più che al merito si guarda ad altro, ma l'IMF è un organismo internazionale e talaltro effettua ricerche e non da giudizi di merito. La ricerca, come si evince cliccando sulla scheda in alto (che si può trovare sul sito http://www.imf.org) mostra che il prodotto italiano nel 2009 sia andato tutt'altro che bene, che è, si, in linea con quello di altri paesi, ma quelli che han fatto peggio (- 4,8 insieme a G.B., Germania). Le proiezioni sul 2010, da utilizzare con molta cautela, viste le continue correzioni a cui abbiamo assistito nel 2009, poi, prevedono una ripresa molto più lenta rispetto a quella degli altri paesi sviluppati, in particolare faremmo meglio solo della Spagna. Insomma non c'è nulla di cui star sereni, purtroppo. Sarà un premio di consolazione quello a cui l'On. si riferiva o sarà che anche il Fondo Monetario legge Topolino? Vorrei sottolineare che non è l'errore in sè che da fastidio, tutti possono sbagliare, quello che più da fastidio è l'arroganza, e cio che fa riflettere, l'applauso finale!

Li Gioi Giovanni

Semplificazione! Questa sconosciuta - Atto Primo


E' da quando ho iniziato a studiare economia che sento parlare di "semplificazione". Era bello apprendere, dal testo di Diritto Tributario, che lo Statuto del Contribuente, legge 27 luglio 2000, n.212, all' art. 6 co. 3 recita: "L'amministrazione finanziaria assume iniziative volte a garantire che i modelli di dichiarazione, le istruzioni e, in generale, ogni propria comunicazione siano messi a disposizione del contribuente in tempi utili e siano comprensibili anche ai contribuenti sforniti di conoscenza in materia tributaria e che il contribuente possa adempiere le obbligazioni tributarie con il minor numero di adempimenti e nelle forme meno costose e più agevoli". Belle parole, ma purtroppo, solo parole. Non sta a me giudicare se questo obiettivo sia stato raggiunto o meno, tuttavia, occupandomi di fisco e tributi, mi preme sottolineare come tra le persone che conosco, anche la più "curiosa" non possa, ad oggi, fare a meno del consulente e il più delle volte, causa lacune legislative, o termini che, menzionati in discipline diverse in modo non univoco, si sovrappongono e si differenziano, anche gli addetti ai lavori devono spesso aspettare i dovuti chiarimenti dell'Agenzia delle Entrate o circolari ministeriali, che corrono al riparo della cattiva tecnica legislativa, per poterne trarre una corretta interpretazione (che talaltro "non hanno forza di legge", dunque non esiste certezza che in sede di un eventuale contenzioso, l'interpretazione data seguendo il parere, risulti corretta). In Italia, "per semplificare" esistono differenti sistemi impositivi, un vasto numero di aliquote, ampi categorie di detrazioni, esenzioni, riduzioni, rimborsi, sanzioni, contributi, tasse, imposte tutte con differenti logiche di applicazione. Si sente parlare sempre più spesso, specie nell'imminenza di elezioni di aliquota unica, cedolare secca, termini che richiamano al mito della semplificazione ma che purtroppo non risolvono affatto il problema. Nei prossimi giorni proverò a spiegare di cosa stiamo parlando. Si accettano suggerimenti!

Li Gioi Giovanni

venerdì 5 febbraio 2010

Guerra di Cifre! Atto Primo


Un esempio di come i dati numerici possono essere utilizzati "in base alle esigenze". Giorni fa su una trasmissione rai, un ministro della Repubblica affermava che sui numeri non si può mentire (a proposito di un rallentamento della disoccupazione). Verissimo. Ma occorre capirne il signicato. Se parliamo di tasso di disoccupazione occorre sapere che esso è una percentuale data dal rapporto tra: (Persone in Cerca di Lavoro/ForzaLavoro)*100. Se il valore del numeratore è intuibile, lo è un pò meno il denominatore. Dunque occorre soffermarcisi un po'. Il valore della Forza Lavoro è composto da: Occupati + Persone in Cerca di Lavoro. Va da sè che, se non esistono Persone che Cercano Lavoro, il tasso di disoccupazione è zero. Ebbene ciò non vuol dire che sono tutti occupati, ma solo che non c'è gente che cerca lavoro, appunto. Paradossalmente, il tasso di disoccupazione diminuisce, anche se il numero di occupati diminuisce e diminuisce allo stesso tempo il numero di PCL. Per chiarire: D=PCL/FL=PCL/PCL+O. Se O=3000 PCL=1000, Tasso=1000/4000=25%. Si ottiene lo stesso risultato con una occupazione dimezzata PCL= 500, O=1500, Tasso=25%. Ad aggravare la situazione sta il fatto che in periodi di bassa occupazione, perchè congiunture di crisi o recessione, un grande numero di persone esce dal calcolo della forza lavoro perchè scoraggiata o si dichiara casalinga, inabile, studente (che lavorerebbe, avendone la possibilità), o perchè non risulta più in cerca di lavoro da due mesi; o, ancora, non rientra nelle statistiche ufficiali. Ciò non fa altro che aumentare le ambiguità dei dati. Dunque, ben diverso l'effetto se ci viene detto che il tasso di disoccupazione è aumentato "solo" dello 0,3 piuttosto che l'occupazione è diminuita dell'8%.

Italiani sveglia! Atto Secondo


Un esempio vale più di mille parole. Negli U.s.a. il presidente Obama si sta in questi giorni battendo per riforma finanziaria, innovazione, programmi per il rilancio dell'export, investimenti nell'educazione, riforma sanitaria. Punto di partenza di Obama sono stimoli fiscali per creare 3,5 milioni posti di lavoro, tagli fiscali per il 95% delle famiglie, sostegno alle banche, affinché possano concedere i prestiti sui quali si basa la vita di milioni di cittadini. In un Paese che non ha mai avuto un debito pubblico, è più facile da sopportare, ma è anche più difficile da far passare. Ovviamente, il contrario di quello che "non" si sta facendo nel Bel Paese, dove, per stimolare l'economia ci si inventa il Piano Casa, presentato come la panacea che dovrebbe tirarci fuori dalla crisi. Ma se le famiglie con due stipendi e un figlio, in città, è stato calcolato, arrivano appena al 23 del mese, difficilmente penseranno ad ampliare casa. E, se fossero in qualche modo obbligati ad intervenire, ogni intervento domestico in Italia è sottoposto ad una burocrazia tale, da rendere più conveniente il vecchio e sano abusivismo. Tanto i condoni sanano tutto. La Social Card, che per 40 euro al mese è sottoposta a vincoli così restrittivi (65-70enni e nuclei con bimbi sotto 3 anni, anziani oltre 70 anni) da far pensare che è stata elaborata proprio per escludere il più ampio numero di persone possibili. A giustificazione dell'inattivismo, poi, si usa di tutto: rispetto dei parametri di Mastricht, paura di vedere disertare le aste dei titoli pubblici, ecc. Problemi realmente vincolanti, ma come già detto, non così stringenti da non consentire margini di manovra utili.
Una precisazione: per far passare le riforme, i democratici in America ci hanno rimesso la maggioranza in Senato, non hanno avuto il voto di coloro che hanno l'interesse a mantenere lo status quo. Ma si va avanti ugualmente. Sarà che hanno più a cuore il bene del paese e i risultati di lungo periodo, piuttosto che i risultati dei sondaggi e il mantenimento delle poltrone? In Italia si sta aspettando che la crisi si esaurisca da sola, ma paesi che consentano di trainare anche il nostro sviluppo, visti i tassi di crescita che rasentano lo zero, in questo momento non esistono! I sacrifici talvolta sono innegabili, gli Italiani hanno saputo sempre farli (e sempre riparando a errori causati da altri). Il vero problema, che purtroppo non sono mai stati ripagati. Guardiamoci intorno. Italiani sveglia!

Italiani sveglia! Atto Primo


La crisi sta gettando sulla strada migliaia di lavoratori. I senza lavoro erano 2.138.000 a fine 2009 e ad oggi l'andamento non subisce battute d'arresto. La classe politica dal canto suo sta a guardare. In televisione i signori onorevoli trasmettono dati che pur veritieri vengono confezionati nella forma che fa più comodo all'uso e consumo del marketing politico e allora, dove il cittadino più avveduto riesce a districarsi, il profano viene ingannato. Così, quando si parla di inflazione o disoccupazione, che se usati impropriamente, non rendono la verà realtà dei problemi che sottintendono. Forse per mascherare l'inefficienza di una politica economica minimale. Troppo timorosa. In mano ad un giurista, ossessionato dalla tenuta dei conti pubblici, che è opportuno controllare (per non arrivare ai risultati di Argentina e ai salti mortali che, probabilmente, ci toccherà fare, in Europa, per non lasciare fallire la Grecia), ma non in modo così rigido, cioè tale da frenare ogni investimento utile.
Si dice continuamente, o meglio, una parte politica lo fa, che l'Italia abbia fatto meglio degli altri paesi. Ma su cosa? Ad una analisi imparziale, è stata in grado di fermare la speculazione nei mercati finanziari, bloccando le vendite allo scoperto; non ha lasciato fallire banche, anche perchè non c'erano situazioni così disastrose e si è premurata di far si che le banche non chiudessero il rubinetto dei crediti alle piccole e medie imprese, cosa che forse è riuscita a fare un pò meno. Tutto ciò è comunque apprezzabile. In secondo, ha mantenuto il debito stabile. Ma su questo ho forti dubbi che possa considerarsi univocamente fattore di positività. Mi spego. Se ho un' azienda fortemente indebitata e non faccio nulla per migliorare la situazione, tagliando il surperfluo, migliorando la combinazione dei fattori o ricorrendo ad ulteriore debito, non so se posso dire che sto facendo bene perchè non ho lasciato aumentare il debito. Sto solo lasciando correre la situazione sperando che si risolva da sola, che qualcuno la risolva per me o peggio fin quando si arriverà al punto che il dissesto sarà inevitabile. Così l'Italia. Dunque, sarebbe ora di allentare un pò la stretta, perchè, se si tappano le falle senza una visione complessiva del problema, talaltro con partite di giro che tolgono fondi da un settore per spostarlo su un altro, non ci può essere sviluppo. Non si preparano le basi per il futuro e l'Italia si troverà con un numero di disoccupati sterminato. Occorre in genere una crescita stabile del 3% (all'incirca) per far si che cresca la fiducia degli imprenditori e l'occupazione inizi a crescere. Dalla crisi bisogna uscire con una economia che ha eliminato le speculazioni. Meno dipendente dalla finanza e più equilibrata. Qui ci si gioca il futuro.
E' da anni che si parla di ridurre la tassazione del lavoro dipendente, fonte principale di reddito dello stato, che si riflette direttamente sui costi delle aziende. Il massimo che si è riuscito a fare è stato ridurre l'acconto irpef di novembre 2009 del 20%, facendolo slittare al 2010. Per quanto riguarda, poi, il welfare: se parliamo di sostegno ai precari e ai liberi professionisti che perdono il lavoro, siamo fermi a livelli da terzo mondo. Si aspettano che i conti migliorino. Ma i conti qui non tornano mai. Basta aver letto la prima pagina di un libro di economia per capire che in tempo di crisi, la soluzione peggiore è quella di bloccare la spesa o, che è peggio, aumentare quella improduttiva. Se si vuole uscire dalla crisi bisogna far ripartire la domanda con investimenti in infratture, innovazione, tecnologia, ricerca. Se non si sostiene la domanda con politiche fiscali espansive, i consumi non possono ripartire. Se non ripartono i consumi, le aziende non producono. Se le aziende non producono, non investono. Se le aziende non investono, finchè riescono, mantengono, poi licenziano e delocalizzano. E' un circolo che sta alla politica rendere virtuoso. Le imprese malate, secondo le regole della concorrenza, dovrebbero uscire dal mercato. In caso contrario, i problemi non sarebbero risolti, ma solo rimandati (Alitalia docet!). Far uscire una impresa dal mercato, vuol dire sacrificare, posti di lavoro. Ciò costa in termini di Welfare. Continuare a sostenerla, è un palliativo. Ciò costa in termini di efficienza. Ma in tempo di crisi può essere il minore dei mali. Sono scelte di politica economica. Decidere per una soluzione, anzichè per l'altra comporta spese. Ma è opportuno scegliere. La politica dovrebbe far capire da quale parte sta, e decidere in fretta. Ad oggi purtroppo pensa solo ai proclami o a risolvere altri problemi, più urgenti! Italiani sveglia!
Li Gioi Giovanni