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martedì 18 ottobre 2011

I sospetti del fisco si spostano sui conti dei “vicini”


Con sentenza di qualche giorno fa, la Corte di Cassazione è tornata, con una nuova pronuncia sul tema delle indagini bancarie e la forza presuntiva dei risultati ottenuti.
Al centro della vicenda una verifica condotta dalla Guardia di finanza a carico di una società a ristretta base familiare. I militari, rilevavano in primo luogo l’inesistenza di un conto corrente intestato alla società stessa, campanello d’allarme che, unitamente alla natura della compagine societaria, induceva i verificatori ad allargare l’ambito di investigazione ai rapporti bancari e conti dei soggetti “vicini” alla società:
soci e familiari degli stessi. Risultato: emergevano rilevanti movimentazioni bancarie che gli stessi contribuenti non riuscivano a giustificare.
L’Agenzia delle Entrate procedeva, quindi, a emettere avviso di accertamento sulla base delle risultanze evidenziate dalle movimentazioni dei conti correnti.
La società impugnava l’avviso di accertamento le cui ragioni venivano accolte dai giudici di merito che contestano all’Amministrazione di non aver fornito la prova di un nesso tra movimentazioni dei conti e i proventi della società.
Tocca alla Cassazione, gli equivoci.
La rilevanza dei dati bancari e il sistema delle presunzioni Atteso che le indagini finanziarie costituiscono uno strumento incisivo e dai risultati ragionevolmente affidabili, perché analitici e specificamente imputabili al contribuente, ma anche un mezzo potenzialmente lesivo per la particolare invasività nella sfera soggettiva, si pone il problema, dal lato dell’Amministrazione, di individuare quando procedere con tale procedura.
L’Agenzia delle Entrate ne suggerisce l’utilizzo in presenza di gravi indizi di evasione o di soggetti altamente sospetti, quali, ad esempio, gli “Et” (evasori totali), oppure nelle situazioni in cui, a fronte di un controllo svolto con altri metodi, permanga un significativo divario tra il volume d’affari e i redditi accertati, oppure ancora quando il risultato della verifica non sia in linea con le realtà osservabili (condizioni di esercizio dell’attività, potenziale capacità reddituale, consistenza del suo patrimonio) ovvero con altri elementi di valutazione.
La bontà dei risultati aumenta se l’indagine viene allargata ai soggetti “vicini” a quello sottoposto a indagine, quali familiari o intestatari di comodo di conti la cui disponibilità rientra nella sfera del primo.
Il caso in commento è esempio efficace di questa casistica.
Pertanto, utilizzare sapientemente questo strumento significa non solo incrociare i dati dei vari conti formalmente di proprietà dell’indagato, ma soprattutto ricostruire i movimenti di entrate e uscite da e verso quelli fittiziamente intestati a terzi.
L’iter logico della pronuncia
E’ la mancata dimostrazione delle circostanze giustificative che ha comportato nel caso in questione la soccombenza del contribuente. Schematizzando:
- la rilevazione per opera dell’Amministrazione dei movimenti in entrata e uscita su conti correnti formalmente intestati a terzi, congiunti del contribuente persona fisica o dell’amministratore di società, ma connessi o collegati al reddito del contribuente, fa scattare la presunzione di ricavi non annotati;
- tale presunzione comporta l’inversion e dell’onere della prova in capo al contribuente che, pertanto, ha l’onere di reagire alle contestazioni, dimostrando che le movimentazioni rilevate “sono già state tenute in conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta” o “non sono rilevanti per il reddito stesso”.
Nel caso di specie, vi è poi un elemento significativo che gioca contro l’inerzia del contribuente che non contesta la presunzione: la cospicua entità delle movimentazioni stesse. La Corte, infatti, sottolinea che, come aveva già avuto modo di rilevare in passate pronunce, quando le movimentazioni sono consistenti, se gli amministratori o i terzi non danno una valida giustificazione alle entrate e uscite rilevate non è possibile superare la presunzione di ricavi non annotati.