Con una sentenza del 31 maggio di quest’anno, la Corte di Cassazione, ha stabilito che “In tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Irpeg ed Iva, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumerne l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo”.
Il caso. L’Agenzia delle Entrate rettificava il reddito dichiarato da una società, ai fini Iva e Irpef, sulla scorta di una verifica fiscale, con la quale aveva recuperato a tassazione ricavi in nero per oltre 200 mila euro.
Contro l’atto impositivo la società, una srl che svolgeva attività commerciale, aveva presentato ricorso alla competente Commissione Tributaria provinciale, i cui giudici ne avevano accolto i motivi.
Anche la Commissione Regionale aveva avallato la decisione dei giudici di prima istanza, motivando che “il recupero operato del saldo negativo di cassa come importi non contabilizzati fosse privo di ogni logica”, ciò anche perché (in termini spiccioli) l’ufficio non aveva avuto cura di dimostrare il rapporto esistente “tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati”. L’Ufficio, a sostegno della propria tesi, aveva ritenuto che tutte le movimentazioni finanziarie riportate nel conto cassa sono il riflesso della gestione economica aziendale, pertanto, se il mastro di cassa presenta un saldo negativo, vuol dire che dalla cassa è uscito più denaro di quanto ne sia entrato, il che è possibile solo se non sono stati registrati tutti gli incassi e tutti i ricavi. Il chè costituisce la prova che in realtà vi sono ricavi non dichiarati pari allo scoperto di cassa.
Cassa in rosso. Secondo la dottrina e la giurisprudenza la cassa negativa (o cassa in rosso) è una situazione contabile impossibile da verificarsi nella realtà.
Infatti, la chiusura “in rosso” di un conto di cassa significa, senza dubbi, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati. In tali ipotesi è facile evincere l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo. In altri termini, il saldo negativo di cassa sta a significare che dal conto cassa sono «usciti» più denari di quanti ne sono «entrati». Il saldo del conto cassa può essere solamente positivo ovvero pari a zero, mentre non può mai essere negativo. Di conseguenza, la Suprema Corte, anche in questa occasione, ha ribadito che “si deve ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo, oltre a rappresentare un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo”.
Secondo questa ricostruzione è facile pervenire alle logiche conseguenze ovvero che il saldo del conto cassa è negativo nei seguenti casi:
• una parte dei denari entrati in cassa non è stata registrata in contabilità (ad esempio, entrate per ricavi in nero; mancata emissione di scontrino o di fattura, ecc.);
• errori di registrazione contabile nel conto cassa.
Onere probatorio. Sotto il profilo della ripartizione dell’onere probatorio tra contribuente e Fisco, non può essere trascurata la pronuncia della Suprema corte in cui si è affermato che “posto che il conto “cassa" rientra sicuramente tra le scritture contabili, ancorché non obbligatorie, astrattamente idonee ad essere utilizzate dall’ufficio ai fini dell’accertamento quale "documento relativo all’impresa". I giudici d’appello non hanno spiegato, in cosa consisterebbe "l’erronea imputazione", operata dal contribuente nel predetto conto e ritenuta idonea a superare la contraria valenza presuntiva (di corrispettivi non contabilizzati) attribuita all’ufficio ai saldi negativi del conto medesimo”.
Il caso. L’Agenzia delle Entrate rettificava il reddito dichiarato da una società, ai fini Iva e Irpef, sulla scorta di una verifica fiscale, con la quale aveva recuperato a tassazione ricavi in nero per oltre 200 mila euro.
Contro l’atto impositivo la società, una srl che svolgeva attività commerciale, aveva presentato ricorso alla competente Commissione Tributaria provinciale, i cui giudici ne avevano accolto i motivi.
Anche la Commissione Regionale aveva avallato la decisione dei giudici di prima istanza, motivando che “il recupero operato del saldo negativo di cassa come importi non contabilizzati fosse privo di ogni logica”, ciò anche perché (in termini spiccioli) l’ufficio non aveva avuto cura di dimostrare il rapporto esistente “tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati”. L’Ufficio, a sostegno della propria tesi, aveva ritenuto che tutte le movimentazioni finanziarie riportate nel conto cassa sono il riflesso della gestione economica aziendale, pertanto, se il mastro di cassa presenta un saldo negativo, vuol dire che dalla cassa è uscito più denaro di quanto ne sia entrato, il che è possibile solo se non sono stati registrati tutti gli incassi e tutti i ricavi. Il chè costituisce la prova che in realtà vi sono ricavi non dichiarati pari allo scoperto di cassa.
Cassa in rosso. Secondo la dottrina e la giurisprudenza la cassa negativa (o cassa in rosso) è una situazione contabile impossibile da verificarsi nella realtà.
Infatti, la chiusura “in rosso” di un conto di cassa significa, senza dubbi, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati. In tali ipotesi è facile evincere l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo. In altri termini, il saldo negativo di cassa sta a significare che dal conto cassa sono «usciti» più denari di quanti ne sono «entrati». Il saldo del conto cassa può essere solamente positivo ovvero pari a zero, mentre non può mai essere negativo. Di conseguenza, la Suprema Corte, anche in questa occasione, ha ribadito che “si deve ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo, oltre a rappresentare un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo”.
Secondo questa ricostruzione è facile pervenire alle logiche conseguenze ovvero che il saldo del conto cassa è negativo nei seguenti casi:
• una parte dei denari entrati in cassa non è stata registrata in contabilità (ad esempio, entrate per ricavi in nero; mancata emissione di scontrino o di fattura, ecc.);
• errori di registrazione contabile nel conto cassa.
Onere probatorio. Sotto il profilo della ripartizione dell’onere probatorio tra contribuente e Fisco, non può essere trascurata la pronuncia della Suprema corte in cui si è affermato che “posto che il conto “cassa" rientra sicuramente tra le scritture contabili, ancorché non obbligatorie, astrattamente idonee ad essere utilizzate dall’ufficio ai fini dell’accertamento quale "documento relativo all’impresa". I giudici d’appello non hanno spiegato, in cosa consisterebbe "l’erronea imputazione", operata dal contribuente nel predetto conto e ritenuta idonea a superare la contraria valenza presuntiva (di corrispettivi non contabilizzati) attribuita all’ufficio ai saldi negativi del conto medesimo”.
Il fisco, dunque, può considerare ricavi in nero la differenza fra il saldo negativo di cassa e gli introiti registrati.
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